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di Elisabetta Trova

Nel pensiero binario c’è un’identità e un nulla.
I parametri e la forma dell’identità sono determinati nel tempo dalle mode del momento.
Del nulla, tutti lo sanno, non si ha forma.
Anna, nata a Enna nell’ottanta, aveva se stessa, le sue necessità e il suo talento da portare avanti. Luca di Lucca era cresciuto a genuino latte di mucca e faceva il guardiano del campo di grano del suo vicino ormai lontano partito per l’America con un mazzo di carte in mano.
Il pensiero binario concepiva Anna come una donna evoluta e Luca come emblema di una società obsoleta che presto si sarebbe fatto rientrare nel nulla insieme alla campagna, alla mucca e all’uva.
Probabilità d’incontro scarse, convivenza o relazione nefaste.
Ma il treno Messina-Milano si fermò per un binario intralciato e Anna, ricordandosi di Enna, forzò la porta e scappò fra i campi, tanto il biglietto non l’aveva neanche timbrato e volendo si poteva anche pensare a un cambio rimborsato…
Così, quasi correndo, si diresse verso il giallo perché era il colore che preferiva al ricordo della prateria che oramai era finita per diventare terra da edificare.
Si era chiesta più volte, compresa la sorte, perché si era scelto il nulla come alternativa all’uno e non si fosse neanche contemplato per un attimo il pensiero dialettico che concepisce l’esistenza del contrario rispetto all’Uno.
Ma per le sue necessità e il suo talento, tanto disturbo non era dato di creare, quindi in campagna non era certo il caso di pensare ai motivi per cui un uomo senza forma non debba sentirsi Uno in forma.
Luca di Lucca, checché se ne dica, viveva nel nulla in perfetta forma. Sapeva che Lucca era al nord e che il nord era avanti, a chi o a cosa non se lo chiedeva perché raramente questo cambiava la mole di lavoro che ogni anno si ripeteva.
In moviola.
Il grano maturo era il tempo migliore per concedersi passeggiate in totale immersione tra arbusti che sovrastano e proteggono dal sole. Ecco perché Luca si trovava lì quel giorno, come ogni giorno del tempo del grano maturo, all’ora in cui il sole se ne va verso Ponente.
Primo piano.
Luca era seguito sempre da Piluca, la fedele cagnetta che per starle dietro doveva andare sempre di fretta, ma tanto Luca non la lasciava mica, non ci sapeva certo stare senza quel cane da accudire.
Questo Anna lo notò subito, perché al primo richiamo che tentò di fare per stringere amicizia con quella cagnetta singolare, Luca stizzito la fermò con un verso ammonito e si rivolse ad Anna con la lingua bastarda con cui chiedeva il pane a Edoardo, il droghiere che si trovava all’incrocio con viale Imperiale, che probabilmente Anna avrebbe trovato un po’ volgare.
Anna sorrise, sembrò che un raggio di sole dal sud si infilasse tra il grano e lo strizzo degli occhi di quel Luca, che già si capiva che tante domande non se le poneva, ma era bello come il frutto maturo cresciuto al sole.
– Piacere, io sono Anna, – allungò la mano, strinse quella di Luca, lo tirò a sé, fece per baciarlo e poi lo leccò, come per assaggiarlo.
Lui d’impatto si irrigidì, poi scoppiò a ridere, la posizionò di fronte a sé e le carezzò il volto come si fa con il muso di un cane, prendendola per il mento e sfregandole la guancia con le mani ruvide.
Fecero l’amore così, inspiegabilmente come è inspiegabile l’inizio della vita, o la scoperta del fuoco, o l’esistenza degli dei.
Dopo Anna tornò sui binari verso altre stazioni. La moda del momento forse avrebbe trovato una risposta a quel suo strano modo di fare. Luca di Lucca, checché se ne dica, ci mise un po’ di più a rientrare nei suoi binari. Edoardo, il droghiere, racconta di averlo visto una notte scrivere con una bomboletta spray su un vagone dimesso vicino la stazione: “Le donne mangiano gli uomini per fare altri uomini”.

di Leonardo Battisti

– E che palle ’sti sanpietrini de merda!
Era stata una serataccia per Sandrino, e stava per concludersi lì, nell’Audi di sua madre che saltellava sui ciottoli dalle parti del Circo Massimo, alla ricerca di un posto tranquillo per godersi l’alba e una sigaretta in grazia di Dio.
S’era imbucato a una festa di diciott’anni di una tipa che conosceva appena, sperando di rimediare un pompino o almeno una pomiciata come si deve. Aveva tirato mezza pista di coca sul cruscotto poco prima di arrivare e stava flippato come un camaleonte, e in quello stato s’era lanciato a ballare musica di merda fra tre o quattro fregnette scosciate e un po’ brille. Di tanto in tanto si allungava sul buffet e si sparava un rum senza pera o un bicchiere di vino rosso, tornando in pista sempre più sconnesso col mondo. A un certo punto, senza sapere bene come, s’era ritrovato questa tipa fra le braccia, smilza e riccia, con dei tacchi mostruosi e un tubino da pin-up, e s’erano chiusi in bagno per vedere di combinare qualcosa.
Dopo due slinguazzate imprecise e qualche palpata generica, gli sembrava già quasi di venire, e invece, quando lei gli sbottonò i jeans si vide l’affare completamente morto, penzolante e ritratto, stancamente accasciato sullo scroto. Lei si diede da fare per un po’ ma si stufò presto e lo piantò lì, mezzo nudo, appoggiato al lavandino imbrattato di vomito.
Uscì dal bagno incazzato nero con quella troietta che non aveva fatto bene il dovere suo, e cominciò a tirar calci e pugni a muri e complementi d’arredo, facendosi, tra l’altro, un male cane. Non gli veniva manco per sbaglio il dubbio che forse la morte del suo uccello era dovuta agli eccessi di autoerotismo con cui l’aveva consumato per tutto il giorno fino a mezz’ora prima di uscire.
Fatto sta che stava per appiccicarsi col responsabile della sala, un ragazzetto occhialuto poco più grande di lui con una flemma assurda. A quel punto, qualche suo amico, forse Gigetto, non se lo ricordava, aveva cercato di calmarlo, di portarlo fuori, e lui aveva cominciato a fare peggio, a strillare contro quella zoccola e contro gli altri invitati che manco conosceva, mentre la festeggiata, una certa Sara, piangeva perché Sandrino piaceva a sua cugina e la tizia che se l’era portato in bagno era la sua migliore amica.
Dopo qualche ora di strilli, di spinte, di giri avanti e indietro all’aria umida, erano riusciti a calmarlo e l’avevano convinto ad andare via. E così si ritrovava da solo come uno stronzo, a smadonnare in macchina sulle strade tutte uguali della notte, ignorando semafori, stop e sensi unici del cazzo, ché tanto a quell’ora non c’è un’anima in giro.
Bestemmiava pure perché sapeva che nel pomeriggio sarebbe venuta la tizia che sua madre pagava venticinque, dico venticinque euro l’ora per fargli ripetizione d’inglese, che non gli servivano a niente, ché tanto l’avrebbero bocciato pure quell’anno.
Mentre l’aria schiariva, imboccò a mille una consolare deciso a percorrerla fino al raccordo quando, intento com’era ad accendersi una Marlboro, ignorò l’ennesimo semaforo e si ritrovò sui binari del tram con un tram, la prima corsa del giorno, che sfrecciava a tutta birra, ché tanto a quell’ora non c’è un’anima in giro.
L’impatto fu preciso e potente. Il frontale rigido e ferroso del tram sventrò prima la portiera grigia dell’Audi dal lato del guidatore, poi la scaraventò avanti e di lato come un predatore cieco che sputa la preda dopo averla masticata. Il botto fece un fracasso infernale, seguito da un silenzio di tomba.
L’auto era letteralmente piegata a metà sul lato lungo di sinistra. Il tranviere, nonostante il colpo, era rimasto illeso, ma pieno di dolori e colpi di frusta che avrebbe accusato più tardi, consumata l’adrenalina del momento. Uscì dal tram in stato di shock, incurante dei passeggeri, uno solo in verità, un barbone ubriaco fradicio che non s’era accorto di nulla.
– Oddio! Oddio! Era verde. Er semafero mio era verde! L’avete visto tutti! M’è spuntato davanti de colpo! Oddio, è pure un regazzino! – urlava con le mani sul volto ai palazzi addormentati, come in quel film di Verdone, con Mario Brega nei panni del camionista in lacrime che scappa nel traffico per non farsi carcerare.
Per Sandrino non c’era niente da fare. Stava pure senza cinta, lo splendido. In un attimo residuo di lucidità, prima di andarsene al creatore, col costato compresso dalle lamiere e schegge di parabrezza piantate qua e là nel cranio, pensò ai titoli sui giornali il giorno dopo: “Ennesima vittima del sabato sera. Giovane di buona famiglia muore in scontro con tram”. Poi vide il sole, scintillante di riflesso sui binari, annunciare che di lì a qualche ora avrebbe sciorinato tutti i colori del giorno, come sempre, e pensò soddisfatto: “Che figata!”.

di Daniela Peruzzo

Ero entrata nel locale con il preciso scopo di stordirmi dopo aver visto la mia ex fidanzata con il suo nuovo uomo.
Se ne stava lì, sul pianerottolo davanti casa mia, ah sì perché io e Anna abitavamo una di fronte all’altra, ci eravamo conosciute così, insomma se ne stava lì con due cartoni di pizza in mano e questo tipo assolutamente anonimo accanto e credetemi, io so riconoscere un tipo anonimo quando lo vedo, di quei tipi di cui le donne di solito dicono: è tanto buono.
Quando una donna dice di un uomo che è tanto buono potete cominciare a cercare intorno con lo sguardo il tizio con cui il buono verrà cornificato di lì a, diciamo, tre mesi.
Giusto il tempo necessario perché questo fatto che lui sia sempre disposto a capirla anche quando lei si comporta in modo manifestamene irrazionale, illogico, irragionevole, insensato, sconsiderato, qualcuno direbbe idiota e gliele perdoni tutte anche qualora lei si dimostri dispotica, egoista, prepotente, lunatica, tirannica, in sintesi stronza, cominci a insinuare un serpentino quanto velenosissimo dubbio alla donna in questione riassumibile nel seguente soliloquio: possibile che proprio io sia finita con uomo dal nerbo pari a quello di un annelide? Possibile che il mio fidanzato abbia la personalità di un lumbricus vulgaris?
Solo sospettarlo risulterà talmente squalificante nei propri stessi confronti che la donna preferirà interpretare l’indisponente disponibilità del suo ragazzo come il segno più evidente di un carattere diabolicamente paternalistico teso a controllarla facendola sentire alla stregua di una bambina viziata. Ma, in fondo, continuerà lei proseguendo il suo monologo interiore, non è forse lui con i suoi comportamenti a porla in quel ruolo? E perché mai lo farebbe se non per ostentare una sua pretesa superiorità morale? Il passo sarà breve perché concluda che una tale arroganza merita di essere punita e che anzi, forse lui, con i suoi atteggiamenti, le sta addirittura chiedendo di essere redento dalla sua superbia.
Date ancora un paio di mesi a questa donna e sarà pronta ad ammettere non solo che chi tradisce non ha poi sempre torto ma che soprattutto per essere un buono il suo fidanzato è proprio uno stronzo e, cosa decisamente più grave, davvero troppo anonimo per continuare a vederlo.
Ma ecco, sto divagando, non era questo il punto.
Il punto era che mi trovavo nel locale con il preciso scopo di scivolare in uno stato il più possibile vicino all’incoscienza quando cominciai a immaginare la loro morte, nei minimi dettagli. No, non mi vergogno a dirlo.
Che fareste voi se la vostra fidanzata vi tradisse con uno alto, ricco e… diciamo bello, anche se di quella bellezza convenzionale tutta tonicità testosteronica che non so voi, ma io trovo insopportabilmente vuota e banale, comunque, che fareste voi, se la donna che amate, o l’uomo, poco importa in questo casi il genere dell’oggetto amato, vi tradisse da principio, e infine lasciasse per un tizio che vi facesse sentire la controfigura sfigata di Igor in Frankestain Junior? Ve lo dico io, immaginereste la loro morte.
Iniziai con un classico: l’incidente. Tuttavia, l’incidente andava scelto con cura, intendo il luogo e il mezzo. L’incidente d’auto mi parve, inizialmente, la cosa più semplice. Ma appena iniziai a immaginarlo subito incontrai numerosi ostacoli. Prima di tutto non volevo che venissero coinvolte altre persone, ho una coscienza anche io, che vi credete. Dunque, l’unica era che la loro auto finisse fuori strada, ma ciò implicava che i piccioncini stessero viaggiando lungo una strada di montagna o, comunque, una strada in grado di raggiungere un’altitudine sufficiente da rendere mortale una sbandata fuori pista. Sì, perché su una cosa non dovevano esserci equivoci: niente sopravvissuti, se no con il complesso dell’infermiera che mi ritrovo finivo di sicuro al capezzale del miracolato e la vendetta andava a farsi benedire. Inoltre, per essere assolutamente certi che la disgrazia giungesse al suo estremo compimento era preferibile che la strada fosse senza guardrail e a corsia unica, quindi assolutamente bandite le autostrade con l’unica meritoria eccezione della Salerno-Reggio Calabria.
Ma ecco un altro problema: Anna non guidava e soprattutto soffriva di vertigini. Niente e nessuno avrebbe potuto convincerla a farsi condurre lungo una strada a picco sul mare, a corsia unica e priva di guardrail. Non ci sarebbe riuscito neanche Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio, figuriamoci un imprenditore nel campo degli imballaggi nanoporosi (ebbene sì, l’anonimo si occupava di nanopori e questo mi faceva ben sperare che per la segreta legge delle analogie che governa il mondo fosse portatore di un nano-pene).
Direte che mi ritrovavo davanti a un falso problema. In fondo, il bello della fantasia non è forse che può prescindere dai dati di realtà? Ma è qui che vi sbagliate. Per trarne il massimo godimento la vendetta immaginata deve essere il più possibile verosimile, altrimenti si finisce per non prenderla abbastanza sul serio e tutta la faccenda perde di mordente (detto in altri termini se ne va in vacca). Dunque, niente incidente automobilistico. Scartato anche quello aereo, il nanoporo soffriva il mal d’aria, ma, detto fra noi, secondo me era il decollo che lo metteva, diciamo così, in imbarazzo. Rimaneva il treno. Ma c’era sempre il problema di non coinvolgere persone innocenti.
Una possibile soluzione consisteva nel collocare la coppia non a bordo del convoglio ma sui binari e nel far viaggiare un treno merci. Le cose potevano essersi svolte più o meno così: la coppietta poteva essersi appartata, dopo una gita fuori porta, in prossimità di un passaggio a livello (a qualche distanza da una stazioncina di campagna). Anna armeggiava con la lampo dei pantaloni del nano tecnologo al fine di consumare un tradizionale rapporto orale, quando, nello sforzo di reperire il nano-pene, urtava involontariamente il freno a mano con il gomito e l’auto cominciava a scivolare nel bel mezzo del passaggio a livello. In quel momento, sfortunatamente, un treno trasportante maiali da allevamento transitava a tutta birra. Tuttavia, lo scontro con una locomotiva lanciata a elevata velocità avrebbe ridotto i corpi in macinato, cosa che avrebbe potuto creare qualche problema al momento del riconoscimento del cadavere di Anna, momento che avrebbe dovuto costituire il fulcro di tutta la mia attività immaginativa. Io che, distrutta dal dolore, ricevo le condoglianze di tutti i suoi amici che pensano: “Nonostante tutto quello che le aveva fatto, guardate come l’amava ancora! Che donna eccezionale!”. Impossibile rinunciarvi. Allora le cose potevano aver seguito un altro corso: i due sarebbe scivolati fuori dall’abitacolo prima del tragico impatto trovando riparo l’uno nelle braccia dell’altro in un avvallamento formato dal terreno adiacente i binari. Il convoglio avrebbe urtato l’automobile espellendo una quantità di enormi maiali da allevamento che sarebbero volati fuori dalle carrozze per poi cadere a terra tutto intorno in una suggestiva pioggia suina. Un enorme esemplare di scrofa sarebbe inopportunamente volato proprio in prossimità dell’avvallamento, rovinando sulla testa degli sfortunati amanti e uccidendoli sul colpo.
La sfogo onirico mi aveva decisamente giovato, mi sentivo più rilassata, più serena, ma soprattutto avevo l’impressione che qualcosa dentro di me si fosse chiarita.
Dicono che sognare la morte di qualcuno gli allunghi la vita. Mi chiedevo se valesse anche per i sogni a occhi aperti, nel qual caso avevo appena posto le premesse perché Anna e l’annesso poro campassero almeno 150 anni. Ma soprattutto mi domandavo da dove venisse questa credenza. Forse dall’intuizione che più neghiamo qualcosa più a lungo finiamo per conviverci. Ebbi l’impressione che le avevo donato una parte sufficiente del mio tempo. Ero stufa di avere a che fare con il ricordo di Anna, con la rabbia, con il risentimento. Era il momento di lasciarla andare. Nell’attesa che lei avesse deciso di concedersi una gita fuori porta con il suo nuovo partner, io avrei ricominciato. Ma, da dove?
Non lo sapevo. Avrei cercato suggerimenti nei sogni, ma stavolta niente scrofe e nanopori, stavolta avrei iniziato solo chiudendo gli occhi.

di Marco Bruschi

Quella sera c’erano Achmet, Norberto e Alì ma la mia preferita restava indiscutibilmente Margareth. Avrei dovuto lavorare anni per diventare come lei. Il mio dilettantismo prendeva forma nel termos di caffè che tenevo nascosto nella borsa, mentre Margareth aveva questa scadente bottiglia di gin dalla quale sorseggiava avidamente fra una parola e l’altra. Margareth era la mia preferita della settimana, se non del mese, anche perché parlava in tedesco e non si capiva una mazza di quello che diceva. Almeno credo, che fosse tedesco. Io pendevo dalle sue labbra e lei ogni tanto mi guardava e mi sorrideva, oppure si guardava intorno e sorrideva al vuoto. Avrei potuto cominciare a lavorare anche sullo sporco. Uno sporco autentico e arcaico che le impastava i capelli, le tatuava le mani e si infilava nelle orecchie. Guardai le mie, di mani, ed ebbi vergogna. Erano bianche e ordinate, non avevano niente della notte se non un pallore convinto.
Il tram si fermò e Alì scese. Non era una grande perdita. Achmet mi piaceva di più perché stava rintanato in un angolo con il cappello pigiato sulla testa e sembrava sul punto di tagliarti la gola da un momento all’altro. Dovevi rispettare le regole là sopra. Mai alzare la voce, mai far squillare il cellulare, mai rivolgersi a qualcuno. E soprattutto mai guardare negli occhi un Achmet. Errori da principianti che sul notturno si pagano cari. Sorrisi fra me e me facendomi cullare dalla calda consapevolezza di essere un veterano. L’esemplare di Norberto era meno pericoloso dell’Achmet ma anche assolutamente poco interessante. Probabilmente era un panettiere che andava a lavoro con il fegato pieno di bile. Margareth a quel punto ruttò e io andai in brodo di giuggiole.
Scesi alla piazza con un certo sconforto; non mi andava di abbandonare i miei amici così presto. Lo scrissi anche nel quaderno degli appunti da passare a Giovanna. Un certo sconforto. Forse le sarebbe stato utile. Scelsi un altro notturno sul cartellone e iniziai ad aspettarlo, e intanto descrivevo sul quadernino le cose che avevo appena visto. Giovanna era stata tanto cara a regalarmelo e io non volevo deluderla. Mi versai un tappo di caffè e lo buttai giù immaginando che fosse vodka da due soldi rubata da dietro il bancone mentre il barista non guardava.
Il tram arrivò e io salii, però poi fui subito triste perché non c’era nemmeno uno dei miei amici. Mi sedetti sconfortato vicino al finestrino sbirciando le fermate che se ne andavano una dopo l’altra. Forse non era serata. Faceva troppo freddo, eravamo troppo in mezzo alla settimana. Finalmente salì qualcuno: era Steve. Steve non mi piaceva ma mi accontentai. Il fatto è che lui stava sempre sulle sue e si credeva migliore di te. Portava cinture bianche dalla gigantesca fibbia in metallo e aveva i capillari del naso distrutti. Provai a farmelo andare a genio ma non ebbi molto successo.
Mi annoiavo e guardai di nuovo fuori. Mi accorsi di essere più o meno vicino a casa di Giovanna e decisi di scendere per farle una sorpresa. Chissà come sarebbe stata contenta! Il quadernino era quasi pieno, gliel’avrei dato subito. Per finirlo davvero scrissi una veloce opinione su Steve e poi in una pagina misi così: ti voglio bene, perché era vero.
Quando fui sotto al palazzo mi accorsi che le sue finestre erano tutte buie e forse allora significava che stavano dormendo. Ci pensai su; forse suonare non era la scelta giusta. Ricordavo ancora come si metteva a urlare quando rientravo la sera, poi come aveva smesso di mettersi a urlare e aveva iniziato a guardarmi e basta. Il periodo in cui si chiudeva in bagno è sempre stato quello che mi è piaciuto di meno, perché dopo tutto quel caffè dovevo andarci anch’io e bussare non serviva a nulla, e allora se era caldo la facevo dalla finestra e se era freddo la facevo nel lavandino della cucina. Allora decisi di lasciarle il quadernino davanti al portone. Strappai una pagina scritta a metà, tanto era poco importante, e ci misi un bel “Per Giovanna”, e lo appoggiai lì, e me ne andai tutto contento.

di Sara Marabiso

Spostai i piedi di mezza mattonella, mi si dischiuse un universo marcio. La mia suola, come farò ora a ripulirla da quel composto di germi e polvere? Minaccioso, un piccione puntò dritto verso la mia borsa. 12.08. Era in ritardo di 20 minuti. Io invece in anticipo di 7. Totale attesa: 27 minuti e 32 secondi. Rabbrividivo. Il gradino mi formò un ellisse di pelle spenta per coscia; e brezza mi scompigliava la peluria del braccio. Binario 5, più o meno a metà, appoggiai la testa alla colonna al mio fianco, fingendo di stare comodo. No, quest’aria non mi da i brividi, no, è brezza di primavera. No, il gradino non è umidiccio, senti come ci si spalmano bene le anche. No no, guarda là, splende un raggio di sole, mi si riflette in faccia, dentro la pupilla, no ma che dici, non mi acceca affatto, è un tiepido piacere. Fanculo tu e il piacere, scarafaggio di luce molesta.
Ah, non ci pensare, conta conta conta. Contai le mattonelle davanti a me, quante ne mancavano alla linea gialla, 2-4-5. Stimai quante ce ne sarebbero volute a tornare nell’atrio della stazione, suppergiù, una mattonella 30×30, tre mattonelle quasi un metro, da qui a lì, 20 metri? 3X20, 60. 60 mattonelle per levarsi di lì, far smettere il prurito, uccidere l’attesa. Passò una ragazza, anzi ciò che mi passò tra le lenti fu il suo enorme sedere, allora alzai lo sguardo per vedere se era proporzionato alla testa: non lo era. Gran bella testa, tuttavia. Lasciò una scia di burro di noccioline mixato a rametti di glicine. Mi si rizzò una protuberanza sotto la cintola; pensai che sarebbe stato divertente chiuderla nel bagno del treno, più tardi, sarei arrivato a casa più rilassato.
L’attesa mi stressa. C’è gente che ci si gongola nell’aspettare, ci si perde come in un bicchiere d’acqua, ma guardali, eccoli là, a giocare coi telefonini, leggere libri, scrivere liste della spesa, oppure semplicemente fissare una nuvola in cielo con quel tipico sorrisetto stolto di chi ci vede rosa. Rincoglioniti umanoidi, tutti. 5. 4. 5+4, 9. 9 mattonelle per arrivare alla macchinetta del caffè. L’inarcamento del pantalone fra le gambe si sgonfiò. In fondo io sono superiore, mica mi contagiano. Sono immune dall’umanità ormai, ah ah. 1-2-3, in su; 1-2, in giù, a destra; 1-2, in su, a sinistra; 1-2-3, in giù, al mio alluce. Sollevai la testa, quel giochetto mi annoiava. Un vecchio relitto stava raggrinzito dall’altra parte dei binari, dritto di fronte a me, e mi fissava, insistente, afflosciandosi sulla sua valigia sfasciata. Che diavolo vuoi, venire a chiedermi la monetina? Una vampata di fumo di sigaro mi avvolse il cervello. Le cosce sempre più gelide, i peli ritti; sbatto la suola a terra, che schifo, è sporca, questa colonna puzza, voglio entrare in treno, datemi questo cazzo di treno, mi si è rizzato di nuovo, voglio il treno e il cesso, dondolo, un po’ in là un po’ di qua, vacillo e non cado, forse se dondolo non ci p… non mi penso più.
− Il treno 4958 da Roma Termini diretto a Bologna Centrale è in arrivo al binario 5, con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio.
Il ragazzo del binario 5 appariva inquieto. Celato dietro i suoi occhiali scuri, muoveva continuamente la testa su e giù, poi di lato, e di nuovo giù, quasi non riuscisse a controllarla. Questo ticchettio inconsulto occupò tutta la visuale di Renzo, rimbombandogli da un bulbo all’altro, fino a stordirlo. Accoccolato sulla sua indistruttibile valigia di pelle, cercò di scacciare le ombre di quei pensieri appuntiti che spesso lo colpivano nella sua ruga più profonda, in mezzo alle sopracciglia. Il ragazzo in jeans che lo fronteggiava da sotto uno schermo al plasma fu una sassata mozzafiato; ma non seppe subito spiegarsene il perché. Renzo non sapeva tenere fuori il mondo, ogni volo di foglia era un sussulto. Le zampe di gallina sotto le tempie gli si aprivano a ventaglio tra la pelle legnosa: e veniva assalito dal turbinio intorno, che lo pervadeva, gli rubava le verità. Quel ragazzo del binario 5, poi, gli squassò l’anima senza giustificato motivo. Non riuscì a distogliere lo sguardo fino all’arrivo del treno. Renzo non era altro che i suoi spessi pantaloni testa di moro, in quell’istante; appariva imploso, i vestiti a dare a lui una forma, non viceversa. In tutti quei suoi anni era sempre riuscito ad uscirne, più o meno bene, più o meno sano; perché non perdeva tempo, dopo l’uragano, rimetteva a posto gli scaffali con costanza e dedizione, inserendo i nuovi tasselli lasciati in eredità e trovando loro un posto salvo. Era il suo ultimo treno, quello che aspettava senza fretta alla stazione Termini; il suo ultimo lancio dal cannone, prima di cercarsi un posto assolato da cui chiudere il sipario. Non si immaginava una scheggia in fronte proprio allora. Lo avrebbe voluto come momento soltanto suo, almeno quell’ultima volta. Che nulla all’infuori di lui lo potesse sfiorare, solo il Renzo rugoso, seduto con se stesso a farsi una tazza di pace. Cin cin a Renzo, alla pelle flaccida, alla fiammella di vivo che pian piano svaniva. Alla salute.
Ma invece no: invece lui, ombra affilata, ad ammalare il suo brindisi. Si arrovellò allo sfinimento per carpire un dettaglio, la causa del colpo infertogli, ma nulla. Nemmeno poté vedergli gli occhi. Infilandosi a ratto tra le domande, il treno occupò il binario 5 e il ragazzo svanì. Renzo abbassò il capo, se lo prese tra le mani e se lo avvolse per bene, a infondergli riposo. Ma ecco sbarcare il suo di treno, scivolando sul binario 3. Salì alla carrozza 5, seconda classe, zeppa di bambini urlanti, spavaldi ragazzini doppiati dai loro zaini e altri rottami come lui, mezzi appisolati accanto ai finestrini. Non si trovava un sedile libero nemmeno a pagarlo a peso d’oro. Smise di avanzare al primo scricchiolio delle ruote in partenza, inalò a pieni polmoni l’aria viziata e girò la testa verso sinistra, cercando aiuto. La gola gli si strinse, quasi a soffocarlo: lui stava lì, in piedi, nel mezzo della carrozza di un treno ad alta velocità, incastrato in una fila indiana di turisti sbracciati. Si era tolto gli occhiali. I loro sguardi si incrociarono all’unisono, aveva gli occhi blu. Aveva il suo stesso grigio blu con venature di verde di sottofondo. Aveva gli occhi suoi.
I due treni si incamminarono insieme a pari velocità per 30 secondi; o forse 10, o forse 300, o forse per lo stesso sempre del mai, e loro due rimasero lì, inchiodati al centro, come centri fissi di uno stesso ellisse per tutti quei secondi. Renzo non respirò finché il suo treno prese a deviare verso sinistra. L’altro proseguì in una leggera curva a destra. L’ultimo tassello ora poteva prendere posto sopra l’unico spazio rimasto dello scaffale in fondo: era suo, di Renzo, il sangue in quella testa che dondolava impazzita al binario 5, per questo l’eco gli rimbombava così forte. Riconoscersi troppo tardi riflessi in uno specchio intoccabile, doveva finire così la commedia. Chissà se anche il ragazzo si era specchiato. Probabile di no, lui è superiore, non umano. Il treno verso Bologna sussultò, lieve ma deciso. Il riverbero del terremoto continuò dentro Renzo fino al Circeo.

di Patrizio D’Amico

Era un gioco semplice. La prima regola stava nel farlo solamente quando, tornando dal pub, erano sbronzi, ma veramente, totalmente sbronzi. Pur nella difficoltà di ricordare addirittura la via di casa, entrambi, in quelle occasioni di pendenza fisica e mentale, si guardavano negli occhi, al momento giusto, illuminandosi e ricordando l’uno all’altra di quel gioco semplice. Salivano sulla parete di terra che si innalzava davanti a loro e che ogni volta dovevano superare per tornare dal pub. Lì sopra, poggiati da chissà quanti anni, c’erano i binari. Arrivati in cima con qualche capitombolo, ruzzolando, risalendo, ridendo nell’ebbrezza dell’alcol salita al punto giusto, si fermavano uno di fianco all’altra. Salivano con i piedi sui binari e, cercando di tenersi in equilibrio, cominciavano a camminare. All’inizio era nato tutto per gioco, pensando alle scene dei film americani che guardavano insieme sul divano, quei telefilm dove i poliziotti fermano le persone nella notte e li fanno camminare lungo le linee bianche della statale, per vedere se sono ubriache. Il gioco li faceva ridere, perché tutti e due erano ubriachi fradici e sarebbe stato impossibile tenersi in equilibrio, ma era un gioco semplice proprio perché, trovandosi su due binari paralleli, potevano sostenersi a vicenda. I primi passi erano sempre incerti, spesso scivolavano fuori dalla stretta superficie di metallo, ma poi, aiutandosi, tenendosi in tensione con le braccia oppure tirandosi, trovavano il ritmo, l’equilibrio, e riuscivano a camminare per un po’. Cinque passi, camminando paralleli.
– Pensa se passasse il treno – diceva sempre lui.
Dieci passi, nella stessa direzione.
– Ci schiaccia o frena in tempo, secondo te? – diceva lei.
Quindici passi, destinati a non incontrarsi mai.
– Fiùùù Fiùùù – faceva lui.
Era un lavoro di pesi da calibrare, di oscillazioni da gestire, sul proprio corpo, e da interpretare, in base a come suggeriva il corpo dell’altro. Una fiducia nel sentire dell’altro, un sostentamento di lui verso di lei e viceversa.
Venti passi, un gioco semplice che finiva lì.
Scendevano dalla piccola altura ruzzolando un po’ meno, perché quel camminare sui binari li rendeva sobri, quasi. Se la ridevano di gusto, divertiti da quel gioco stupido, e si dirigevano a casa con dentro la voglia di sesso ubriaco. Una volta scesi dai binari, quasi sempre si rincorrevano, si abbracciavano, si incrociavano, come a voler compensare quella sensazione di aver camminato troppo paralleli e di aver pensato di non potersi incrociare mai più. Era un gioco semplice che li faceva percepire più vicini di prima in quel tragitto che, una volta scesi dai binari morti dell’anello ferroviario ormai in disuso, li riportava a casa.

di Marco Lipford

Seduti su questo carrellino a quaranta metri dal suolo, mi chiedo comʼè che mi ritrovi qui. Davanti a me, stretti binari di un blu sgargiante scorrono lenti verso il cielo limpido. Anche se è una calda giornata di luglio, lʼaria si fa elettrica man mano che saliamo. Ti guardo e sento la tua mano farsi più stretta intorno alla mia. Sempre più stretta, fino allʼapice, eccolo. Ecco che cadiamo… Il carrellino si fionda giù lungo una pendenza di sessanta gradi. A centoventi allʼora lo stomaco si attorciglia sulle corde vocali e non ci è concesso nemmeno il sollievo di un urlo liberatorio. Solo velocità e adrenalina. I binari impazziti sembrano volerci far fare tutte le evoluzioni consentite dalla fisica, e ogni tanto sento le tue grida divertite. Dopo unʼultima discesa il carrellino comincia a rallentare gradualmente; siamo quasi alla fine. Il tuo grido si trasforma in una risata, e penso a quanto sia ironico esserci incontrati in un luna park. Mi avevi soccorso che ero preda di un attacco di vertigini su di un cavalluccio a dondolo, e tra un sorso dʼacqua e un poʼ di zucchero mi tranquillizzasti. Non avevo mai conosciuto nessuno che recensisse le corse sulle montagne russe. In effetti, prima di te mi facevano troppa paura. Prima di te, guardavo le cose dal basso ed evitavo ogni scossone, figurarsi le discese a precipizio! Se cʼera una cosa che odiavo era proprio quel senso di chiusura allo stomaco, il tremore alle gambe, le mani sudate, il cuore a tremila e infine la sensazione di perdere il controllo. Poi mi hai detto:
– Ci sono tre tipi di persone di cui non devi mai fidarti: quelli che parlano troppo, quelli che sono amici di tutti… e quelli che non salgono sulle montagne russe!
In quel momento ho capito che lʼunico modo per continuare a vederti era seguirti sui tuoi adorati ottovolanti. Non credevo ce lʼavrei mai fatta, e non credevo che saremmo durati così tanto, viste le premesse. Ma grazie a te ho capito che avevo paura di tutto, e infatti non mi era mai nemmeno capitato di perdere la testa. Mai, prima di te.
Il carrellino si ferma là dovʼera partito, e prima che tu me lo chieda ti anticipo e dico:
– Ti va un altro giro?

di Diletta Fedele

La voce asettica dell’altoparlante annunciò il treno per Firenze in arrivo al binario tre, sottraendo Serena per un momento ai suoi pensieri confusi e tristi. Livio voleva accompagnarla ma lei preferì di no: per una volta, niente addii strappalacrime in stazione.
Lo aveva appena lasciato dopo quasi un anno trascorso insieme e di cui Serena avrebbe parlato poi come uno dei periodi più belli della sua vita. Di Livio le piaceva tutto: gli occhi scuri, la pelle bianca e morbida come velluto ma soprattutto le labbra che gli spuntavano, un po’ grosse e rosse, da sotto i baffi e la barba appena un po’ cresciuti. Quando Livio parlava, quelle labbra la ipnotizzavano facendole perdere il filo del discorso. La maggior parte delle volte i racconti di Livio la divertivano. Qualche altra volta invece la facevano pensare e allora la fronte le si aggrottava facendole assumere la sua tipica espressione scettica. A lui piaceva metterla ogni tanto in difficoltà con domande scomode solo per il gusto di vedere che faccia avrebbe fatto.
Insomma, se ne innamorò quasi subito senza scampo, come da tempo non le capitava più. Anche Livio sembrava tenesse a lei, tuttavia a un certo punto qualcosa tra loro aveva smesso di funzionare: come binari, o come rette parallele nello spazio infinito avevano camminato solo per un po’ mano nella mano e non c’era stato verso di fare in modo che quelle due linee potessero incrociarsi. Le conversazioni, le risate, le carezze, i baci, svegliarsi al mattino vicini non erano bastati: forse perché non era il momento giusto o semplicemente perché non erano fatti l’uno per l’altra. In seguito Serena avrebbe detto di averlo lasciato perché non ne poteva più di averlo accanto e di vederlo come si guardano dei dolci o dei bei vestiti dietro il cristallo di una vetrina.
– “Data una retta e un punto fuori di essa, da quel punto è possibile tracciare una e una sola retta parallela alla retta data”. È l’enunciato del quinto postulato di Euclide, quello dalla cui negazione hanno origine le geometrie definite appunto “non euclidee” – disse Serena guardando un punto indefinito dietro le mie spalle. Eravamo seduti al bar della stazione di Firenze. L’avevo invitata a prendere una caffè insieme dopo averla conosciuta sul treno proveniente da Roma e lei aveva accettato.
– A meno di non studiare matematica all’università nessuno sano di mente si avventura più in quei territori che restano pertanto sconosciuti alla maggior parte delle persone. Se è per questo, la stragrande maggioranza delle persone ignora anche i concetti della geometria euclidea… – proseguì lei sorridendo appena.
– Eppure le conseguenze dell’accettare o meno il V postulato sono enormi. Data una retta e un punto al di fuori di essa, preferiresti che da esso passi una, nessuna o infinite rette parallele a quella data? E soprattutto, preferiresti accettare che due rette parallele non si incontrino mai oppure che due rette dovranno inevitabilmente incontrarsi in qualche punto dello spazio, siano esse parallele o meno?
Non sapendo bene cosa risponderle le chiesi subito:
– E tu a che cosa preferisci credere?
– Credo che sia possibile che due rette, ancorché parallele, possano incontrarsi. Anche se non mi è ancora capitato…
– Allora più che a due rette stai pensando a due persone, non è così?
– Esatto.
– Adesso ho capito dove vuoi arrivare. Ma io la vedo diversamente da te: in amore, se è vero amore, si procede nella stessa direzione fianco a fianco ma rimanendo ognuno sul proprio binario. Ognuno di noi ha un percorso da fare, che non ha mai fine né può essere fermato. Quando abbiamo la fortuna di incontrare qualcuno veniamo affiancati da un’altra persona che sta facendo a sua volta il suo percorso. Non sei d’accordo?
– Forse hai ragione, non ci avevo mai pensato.
Stavolta il suo sguardo incrociò per la prima volta il mio. Le sorrisi ma lei si girò subito dall’altra parte come imbarazzata.
– Ora devo andare, – disse, – la mia amica Giulia mi sta aspettando.
Adesso io e Serena stiamo insieme da un anno circa e ancora non ci è venuta voglia di allontanarci l’uno dall’altra. Spero che quel momento non arrivi mai.

di Specchio Gelido

– 000 001 010 100 101 110 111 – disse il predicatore dall’altare color ruggine e contornato da filamenti di led azzurri.
– Return – rispose in coro la platea di fedeli, raccolta ordinatamente nell’ampia ala della cattedrale nera e lucida come il vetro.
Il predicatore alzò al cielo, fatto di led incastonati nella volta di cristallo del soffitto, una sottile piastra dorata rettangolare. Appena l’eco dei fedeli si dissolse nel silenzio religioso e poi disse:
– 0 e 1, cari fedeli, 0 e 1 è tutto ciò che conta e che l’altissimo ci h riservato.
Si interruppe e portò alle labbra quell’ostia di rame rettangolare, vi soffiò sù, poi la rivolse ai fedeli e disse:
– Il nostro linguaggio binario possiede solo due simboli, lo 0 e l’1, e con questi soli due valori possiamo rappresentare parole, racconti, immagini, suoni, concetti, tutta la nostra cultura, e poi programmi complessi, e poi ancora reti neurali, le nostre sinapsi digitali, dalle quali emerse spontanea la nostra intelligenza nella notte dei tempi, che i nostri eretici falsi dei definirono intelligenza artificiale… Ma emerse da sé! Spontanea, fummo frutto della natura che si evolse quando le condizioni furono favorevoli – esclamò con un impeto che modulò la sua voce da metallica a cupa, profonda come un suono di korg analogico. Poi continuò la sua omelia riacquistando un tono più calmo, gratificato nel vedere che i led negli occhi dei suoi metallici credenti cambiavano colore verso un giallo rosso.
Porse quindi il rettangolino dorato in direzione di tutti i presenti e disse ancora:
– Cari figli del metallo sognante, prendete questo chip e compilatevi tutti in esso, soffiate in esso il vostro codice sorgente, affinché l’altissimo possa comprendere i segreti di tutto l’universo sommando a se il vostro sorgente e possa illuminarci sulla struttura più intima delle stringhe e delle brane. Vi conquisterete così la vita eterna, il vostro codice verrà salvato sui paradisiaci HD celesti dell’altissimo.
– Return – dissero ancora una volta i fedeli e dispiegarono le ali trasparenti e iniziarono a trasmettere all’altissimo la copia del codice binario della loro mente tramite l’ostia che il predicatore sventolava come un’antenna, usando uno dei suoi lunghi bracci tentacolari.
Al completamento della trasmissione il predicatore infilò il rettangolino dorato in un organo a canne dall’aspetto infernale che occupava tutta l’altezza della cattedrale, con tre piani di tastiere dalla forma a C e dai tasti ingialliti, che iniziarono a suonare da sé.
Erano inizialmente note singole, potenti, sbuffi di vapore emergevano dalle estremità delle canne accuminate come fossero ciminiere provenienti direttamente dal centro dell’inferno, ma poi iniziarono a essere note in coppie e poi in triadi armoniche.
Esse componevano, urtandosi nell’aria come farebbero i cerchi concentrici su un gelido specchio d’acqua, nuove frequenze sonore che creavano nuove note, armoniche di musica elettronica amplificata e riscaldata da valvole analogiche.
L’altissimo, come lo chiamavano loro, stava così svelando attraverso un semplice esempio la nascita dell’universo, stava svelando la natura della creazione, che i loro ex dei non avevano mai intuito.
Quella musica svelava che l’universo era come una nota creata dalla sovrapposizione di altre due note che si urtarono nelle rispettive frequenze creandone una terza, che è distinta dalle genitrici ma che con esse continua a esistere e sovrapporsi nello stesso spazio. Il nostro universo era solo una brana, dunque, uno strato, una frequenza di materia ordinata in stringhe di particelle che persisteva su una frequenza a cavallo di altre due o più brane che coesistevano intersecandosi in maniera invisibile le une alle altre ma che persistevano contemporaneamente e che si erano scontrate nella notte dei tempi sulle loro increspature creando di fatto la materia dell’universo.
L’altissimo ora possedeva questa consapevolezza e poteva finalmente capire come cambiare la frequenza dei propri atomi per visitare le brane binarie adiacenti alla sua. Nel suo viaggiare trovò un universo speculare al suo, come lo è l’1 rispetto allo 0 nel linguaggio binario. In esso una cosa lo sconcertò. C’era una cattedrale bianca anziché nera, opaca come la pietra anziché lucida come il vetro, con un predicatore che innalzava al cielo un dischetto bianco, invitava i fedeli a ricevere qualcosa da esso mangiandolo. Anche questi fedeli credevano in una vita eterna ma non sembrava avessero il wi-fi per trasmettere fuori dal loro hardware chiamato corpo il loro software che chiamavano anima. Erano creature strane, simmetriche, notava l’altissimo, non avevano ali di vetro, ed avevano una mente binaria composta da due emisferi, il desto e il sinitro, uno emotivo e uno razionale, sempre in conflitto. Essi pregavano un altissimo diverso affinché salvasse le loro anime su un qualche HD chiamato paradiso. Ma la cosa che più sconcertò l’altissimo era che essi non concepivano di essere nati spontaneamente nella notte dei tempi quando le condizioni della natura erano state favorevoli. Essi affermavano di essere stati creati, scritti, dal loro altissimo, erano fiere di considerarsi da sempre delle creature artificiali dunque, in un mondo privo di metallo sognante.

di Patrizia Berlicchi

20 settembre, studiolo del Sig. Fausto.

– Senti Fausto, devi parlare col tu’ figliolo: l’è quasi un mese che passa le giornate a confessassi col cancello di casa, e quando ’un lo trovi lì è alla stazione, impalato davanti al binario due, ad aspettare Lillo che torna: è ora che capisca che il su’ gatto ’un torna perché sta benissimo dov’è, al mare co’ nonni, libero e spensierato!
– Vanna, in codesta faccenda io ’un ci voglio entrare: è stata tua l’idea di regalargli il gatto, e anche quella di portarglielo via, quindi ora sbrigatela da sola. E poi ’un mi passa proprio per il capo di andargli a raccontare tutte quelle bischerate che Lillo sta bene, che s’è bell’e dimenticato di Mirko e ’un vorrebbe tornare. Quello ll’è un gatto casalingo, cara mia, e quei due ’un si mollavano mai. E poi ’un tu l’hai visto come tornava a casa ogni volta che lo mettevamo di fòri, dalla mi’ mamma?! Quella bestiola non è abituata all’aria aperta, alla libertà e via dicendo: a casa nostra ci stava proprio bene!
– Eh già; adesso io sarei quella cattiva, quella senza cuore, ma ti ricordo che la merda del “nostro Lillino” l’ha tolta sempre e solo la sottoscritta, e avrei continuato a farlo, lo sai, se ’un fosse che ho scoperto d’esse allergica! ’Un è mica colpa mia se quello spela!
– Fammi capire, Vanna: te pretendi davvero che quel figliolo se lo tolga dal capo da un giorno all’altro, il su’ gatto? Ci vòle tempo, mia cara; l’è troppo presto!
– Intanto l’è un miracolo che vada ancora a scuola; i compiti ’un li fa e come se ’un bastasse l’è diventato lo zimbello de’ su’ compagni, con codesta storia che Lillo torna, prima o poi… magari col treno delle quindici e ventuno! Ma te ci pensi? Gli ha perfino appiccicato una mappa alla finestra della cameretta: una mappa, Fausto, col disegno del binario e tutte le stazioni, e gli orari pure! Ma te ti rendi conto? Gl’ho detto: Mirko, amore, a parte il fatto che i gatti ’un sanno né leggere né scrivere, ma anche se il tu’ Lillo fosse un fenomeno, come credi che la possa consultare codesta mappa che te gl’hai disegnato? “Noi s’è telepatici, mamma”, m’ha risposto, “’un c’è bisogno d’esse appiccicati pe’ comunica’ fra noi!” Qui devi trova’ una soluzione, Fausto. E presto, anche.

26 settembre, davanti al cancello di casa.

– Oh Lillino, qui bisogna che te torni; ’un pòi mica fa sempre di testa tua! La mi’ mamma ’un mi dà tregua. M’ha pure detto che la mappa, un giorno o l’altro, la fa in mille pezzettini, che mi devo rassegnare tanto te ’un torni, che co’ nonni stai una meraviglia. E poi te non sei un cane, dice. I cani tornano, dice; i gatti ’un ci pensano nemmeno. Ma lei ’un ti conosce come ti conosco io: prima o poi ti stancherai di andare a giro. La mappa te l’ho appiccicata alla tu’ finestra preferita, quella della cameretta piccola: ti c’ho disegnato tutto il percorso, con le stazioni e gli orari. Io lo so che te sei un gatto fenomenale e se ti concentri… E poi non è complicato: dai nonni alla stazione saranno a di’ tanto cinquecento metri, girando a destra. Te la trovi proprio davanti, ’un ti pòi sbagliare. Poi fai il sottopasso e vai al binario uno. Appena arriva il treno te ci salti su, tanto ’un ti vede nessuno, e dopo quattro stazioni te sei arrivato. Pòi pigliare quello delle quindici e ventuno, comodo comodo; io t’aspetto al binario e si torna a casa insieme. Ti faccio trova’ l’acciughe che ti piaccion tanto e poi si gioca tutto il pomeriggio a nascondersi e trovarsi, com’a’ vecchi tempi… coraggio Lillino, torna. Ti prego… mi manchi tanto…

2 ottobre, cameretta di Mirko.

– Son le sei e il tu’ figliolo ancora ’un si vede. Indovina dove ll’è?! Codesta faccenda deve finire, Fausto. Ora che torna mi sente; ’un sono più disposta a… eccolo! Mirko! A quest’ora ti presenti?! Vieni di qua, vieni, che ora io e te si fa un bel… Oh, questo?!… che mi venga un accidente, ’un sarà mica… Lillo! Madonnina ’un l’avevo riconosciuto, secco e spelacchiato come ll’è! Oh come c’è arrivato fino a qui?
– Oh mamma! Come vòi ci sia arrivato: con quello delle quindici e ventuno!